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8.30.2014


La collezione Farnese. Ercole di Glicone ed Ercole Latino

 Alessandro Farnese
ritratto da Tiziano
come Papa Paolo III
La collezione Farnese nasce nel periodo rinascimentale per volontà di Alessandro Farnese (1468-1549), divenuto papa nel 1534, col nome pontificale Paolo III,  fu uno dei più grandi mecenati del Rinascimento italiano. Iniziò verso il 1543 a collezionare e a commissionare opere ai grandi artisti dell’epoca, creando una ricca collezione d’arte, coinvolgendo: Raffaello, Sebastiano del Piombo, Tiziano, Guglielmo Della Porta, Michelangelo, El Greco e tanti altri, oltre, ad impegnarsi in diverse acquisizioni. Sempre sotto il suo pontificato, incentivò la campagna di scavi presso le Terme di Caracalla, la sua collezione fu incrementata da diverse sculture archeologiche di estimabile valore storico artistico.
Antonio da Sangallo il giovane
Schizzo delle Terme di Caracalla

Tra le diverse sculture rinvenute, furono trovate due statue di Ercole, documentato da uno schizzo di Antonio da Sangallo il giovane. Le due statue risultavano in posizione simmetriche e collocate nel medesimo ambiente.

Solo successivamente furono trasferite al Palazzo Farnese.


Antonio Lafrary
Cortile Palazzo Farnese
Nel 1550 i due colossi furono visti e descritti da Ulisse Aldrovandi, confermato poi, da un’incisione del 1560 di Antonio Lafrary (1512-1577), in cui si notano i due Ercole disposti simmetricamente nelle arcate laterali di fondo del cortile del Palazzo Farnese. A sinistra è riconoscibile Ercole di Glicone, con i piedi allineati l’uno davanti all’altro ed il corpo uniformemente obliquo che posa sulla clava, puntata a sua volta su di una roccia. Il braccio destro è girato dietro al dorso e nella mano sono i pomi delle Esperidi. L’altro, l’Ercole Latino, collocato a destra appare della stessa proporzione, ma si differenzia per: la gamba sinistra leggermente flessa è condotta lateralmente col piede divergente rispetto alla destra. Il piegamento della gamba sinistra determina un’inclinazione del bacino.  La clava non fa da sostegno, come nell’opera di Glicone, ma serve per alleviare la stanchezza dell’eroe, è verticale, poggia sulla testa del toro. Il braccio sinistro scende lungo la leontea, il destro è girato dietro al dorso e nella mano sono i pomi delle Esperidi. Infine, il supporto stretto e allungato dietro la gamba, trattandosi del tronco con la faretra.

Ma la collezione Farnese comprendeva anche quella di Parma e Piacenza, in cui vi era una considerevole presenza di opere della scuola emiliana e fiamminga.

Mi soffermo sulla raccolta romana.

Elisabetta Farnese
Nel 1731, morto l’ultimo esponente del ramo maschile della dinastia, Antonio Farnese, il patrimonio passò a sua nipote Elisabetta Farnese, consorte di Filippo V di Spagna e madre del nuovo duca di Parma e Piacenza, Carlo di Borbone (1716-1788).


Carlo di Borbone
Nel 1734 Carlo partì alla conquista delle Due Sicilie e nel lasciare Parma dispose il trasferimento dei beni farnesiani a Napoli, completato tra 1735 e il 1739. Nella capitale del Regno, Carlo ordinò l'edificazione di una lustre dimora come sede delle opere, nacque la Reggia di Capodimonte, che poi divenne, residenza reale.
Ferdinando IV di Borbone
Ma solo dopo cinquanta anni, sotto Ferdinando IV di Borbone(1751-1825), il trasferimento della collezione Farnese fu completato. Egli, decise di spostare a Napoli anche la collezione romana costituita essenzialmente da sculture e reperti archeologici conservati nel palazzo Farnese. Alla morte di Elisabetta Farnese nel 1766, Ferdinando IV di Borbone divenne formalmente proprietario dei Beni Farnese, poiché la nonna, fu l’ultima discendente diretta della famiglia. Lo spostamento delle sculture antiche iniziò tra il 1786 ed il 1788, con l’opposizione da parte del pontefice PIO VI.
Ercole di Glicone
Museo archeologico
di Napoli
Ferdinando IV, non si lasciò sopraffare ed ordinò il trasporto della collezione verso Napoli. Una delle prime statue ad essere spedita fu Ercole di Glicone, in vista della sua celebrità. In un rendiconto lasciato dal Venuti per le spese di trasporto, datato 6 luglio 1787 risulta il pagamento: Al P(adro)ne Andrea Anselmi Ducati trecento per il nolo fatto sopra il suo bastimento da Roma in Napoli dalla statua dell’Ercole Farnese. Il giorno 11 dello stesso mese, il Venuti riceveva l’invito a scegliere il luogo da lui ritenuto più adatto nel palazzo  destinato al Museo, per collocarvi la statua dell’Ercole Farnese, già qui pervenuta da Roma. 
Ercole Latino
Palazzo Reale di Caserta
La sorte dell’altro colosso di Ercole fu diversa.
Pur volendo ricostruire al completo il Museo Farnese a Napoli, la scultura di Ercole Latino fu ritenuta di minor pregio, non sembrò adatta all’esposizione nel luogo deputato all’ammirazione degli artisti ed all’osservazione degli eruditi. Invece, se ne apprezzò il valore decorativo e il significato simbolico, cosi fu destinata all’ornamento del Palazzo Reale di Caserta.
Difatti, in un inventario redatto nel 1796 delle opere Farnese arrivate a Napoli, risultava, l’Ercole di Glicone, collocato nella sala del nuovo museo. Ma subito dopo, nel medesimo elenco, un altro Ercole di enormi proporzioni, anzi, di mezzo palmo più alto del primo, risulta eccezionalmente inoltrato a Caserta: statua di Ercole alta con sua base palmi 12 e mezzo. La controscritta statua si denomina Ercole Latino per essere fatta in Roma e quantunque non abbia il merito dell’anzidetta, pure è di una eccellente scultura, e merita molto restauro per essere tutta scomposta; esiste nello studio del Sig(nor) D(on) Angelo Brunetti in Caserta.
Pertanto, a causa della difficoltà di trasferire la scultura così imponente, si era, preventivamente deciso di affidare ad un artista già operante in Caserta l’intervento di restauro, poiché la collocazione definitiva era prevista l’interno della Reggia vanvitelliana.
Ciò è confermato da una circostanza che nel "Catalogo delle sculture antiche" redatto nel 1805 per il "Nuovo Museo dei vecchi studi in Napoli" è descritto l’Ercole di Glicone, ma non c’è nessun cenno dell’altro.

Palazzo Reale di Caserta
Attualmente, la scultura di Ercole Latino è posto nel vestibolo inferiore, è il centro del piano terra della Reggia vanvitelliana, nella nicchia che fronteggia lo Scalone.
 

8.20.2014

Alife tra archeologia, storia e tradizioni.

 « Si racconterà gloriosamente in tutto il mondo come noi, confidando nella giustizia, e difendendo le nostre cose, preferimmo morire di spada, piuttosto che consentire a mani straniere, con noi ancora viventi, di invadere le nostre terre trasformandone i cittadini in esuli! »
(Rainulfo di Alife ai suoi militi, Cronaca di Falcone di Benevento anno 1132)
 
Il mio viaggio continua alla riscoperta del territorio campano.
Percorrendo la strada statale 372 la Telesina, uscita  Dragoni Alife, inizia il cammino verso il mondo antico.
Attraverso la campagna verde lussureggiante racchiusa tra il Massiccio del Matese, arrivo alle porte di Alife, che per secoli è stato il centro di scambi fra culture diverse. Sorta tra il Lazio meridionale, la Campania settentrionale e  il Molise, Alife è a 110 m. slm, nasce nella valle del fiume Volturno e alle pendici del versante meridionale del Massiccio del Matese. La vasta pianura, resa fertile dal corso del fiume Volturno e da altri torrenti, ha da sempre costituito l’ambiente ideale per  insediamenti e di attività umane, oltre per la sua  vastità territoriale. Le prime tracce di presenza umana nel territorio alifano risalgono al Paleolitico, ma poi nei secoli si sono susseguiti le diverse invasioni dei popoli che hanno lasciato traccia della propria esistenza. L'etimologia del nome Alife è ancora molto incerta ed è oggetto di studi. Il termine greco Elaias (oliva) è l 'origine più plausibile del termine latino Aliphae. Di fatto l'antichissima varietà autoctona di ulivi "tonda allifa" sembra la prova più convincente di una etimologia con contenuto semantico.
La cittadina è conosciuta a livello nazionale anche come "Città della Cipolla". La coltivazione di questo ortaggio è storicamente attestata fin dai tempi della dominazione romana e la sua esportazione è stata per secoli la principale fonte di sostentamento dei suoi abitanti. Da pochi giorni è stato presentato il libro “Conservando sulla Cipolla in Alife. Dall’Evo Antico ai giorni nostri” di Rosario De Lello, un vero è proprio trattato di storia sulla cipolla alifana.
 
 
 
 
 
Alife ha origine osca-sannita.
A seguito dell'organizzazione socio-politica e dello sviluppo economico, fu coniata la loro moneta, il didramma d'argento del V - IV secolo a.C.
Fu a lungo in lotta con Roma dal 343 al 290 a.C.  venendo poi distrutta durante le Guerre Sannitiche.
 
Alife, sotto il dominio dei romani, fu circoscritta da una poderosa cinta muraria in “opus Incertum”. Ancora oggi conserva l’antico impianto urbanistico con strade che si incrociano ad angolo retto suddividendo la città in quattro settori. La strada che congiunge Porta Napoli con Porta Romana era detta “decumanus maximus” mentre quella che congiunge Porta Fiume con Porta Piedimonte era detta “cardo maximus”. In età imperiale la città ebbe il suo massimo splendore: la posizione geografica permise lo sviluppo dei commerci con le zone meridionali. Furono costruite il teatro, l’anfiteatro e le terme pubbliche, oltre a numerose ville suburbane decorate con grande sfarzo. Con la caduta dell’impero e l’invasione dei Longobardi la città decadde, pur divenendo sede della contea longobarda, gastaldato. 
Nel corso del IX secolo conobbe momenti bui, tra guerre, terremoti e saccheggi da parte dei saraceni.
Solo nel X secolo divenne contea e il primo conte storicamente noto fu Bernardo.
Nella seconda metà dell’XI secolo il territorio alifano ebbe momenti di rifioritura. Con la famiglia Drengot Quarrel stirpe normanna, la cittadina visse una nuova ripresa.
Il primo conte della stirpe fu Rainulfo fratello di Riccardo I di Capua a cui succedette il figlio Roberto di Alife, il cui discendente Rainulfo II divenne conte di Alife e Caiazzo. Chiese ed ottenne nel 1131 circa, dall’antipapa Anacleto II le reliquie di San Sisto I, il papa e martire, divenuto poi protettore della città e della diocesi. A lui Rainulfo II, fu dedicata la cattedrale, intitolata a Santa Maria Assunta, che attualmente conserva una cripta di grande valore storico.
C’è molto da vedere, ma bisogna essere guidati in questo piccolo gioiello di cultura e storia.  La mia guida è il professore Gianni Parisi, attivo uomo di cultura che descrive il suo territorio con la passione di chi ama la propria terra.
Si inizia dal Museo Archeologico, allestito presso la sala della Soprintendenza dei Beni Archeologici.



La sala conserva reperti provenienti dalle necropoli, databile dal VII al IV secolo a.C. da cui sono stati recuperati vasellame e bronzi lavorati di ottima qualità.
Una delle necropoli più interessanti 
è sicuramente quella scoperta in località Conca d’Oro. Gli scavi furono realizzati e sovvenzionati dalla famiglia Egg nel 1877, industriali elvetici che si erano stabiliti a Piedimonte d’Alife per la lavorazione del cotone. Scoperta per caso una delle necropoli più importanti, i lavori continuarono fino al 1884. All’epoca la legislazione vigente permetteva di mantenere la proprietà sui reperti rinvenuti, ma inseguito alle difficoltà economiche della famiglia la gran parte dei cimeli furono venduti sul mercato dell’antiquariato, mentre una parte fu acquistato dal Museo Nazionale di Napoli.
 
 
 
 
 






  
Ci spostiamo verso il Criptoportico.
E’ una meraviglia!Risalente all’ età giulio claudia(27 a.C - 68 d.C), il criptoportico alifano è tra i più evoluto, poiché mostra uno schema architettonico complesso, con pianta ad “U” articolata su tre bracci e due navate. Le navate sono divise da pilastri e coperte a volte irregolare.
Lungo le pareti interne si conservano le finestre a bocca di lupo(spiracula)che servivano per garantire il ricambio di aria con il cortile sovrastante.
Il termine criptoportico fa riferimento ad un ambiente chiuso, nascosto, ma non necessariamente sotterraneo.
Essi possono essere di uso privato e pubblico, rivestendo nell’antichità numerose funzioni. Tali strutture potevano essere impiegate come corridoi di passaggio e servizio tra un edificio e l’altro, o come strutture di contenimento per terrazzamenti artificiali, come cisterne o magazzini, ma anche come ambienti con scopi religiosi e funerari.
Prima di giungere all’anfiteatro, sostiamo al Mausoleo degli Acilii Glabrioni. La tradizione vuole che il Mausoleo sia appartenuto alla famiglia degli Acilii Glabrioni, ed è stato usato come chiesa fino al secolo scorso col nome della cappella di S. Giovanni Gerosolimitano. La struttura a forma cilindrica di 10 metri di diametro, l’interno, mostra una copertura a cupola in conglomerato cementizio, impostata su una fascia in opera incerta. Il tamburo, presenta otto nicchie a pianta rettangolare.    

 
 
 
 
 
 
 
 
 
Arriviamo finalmente all’anfiteatro
 
 
 
 
 
 
 
Il monumento risale alla prima età imperiale, rilevato a poca distanza dalla Porta Napoli, a est delle mura. Parzialmente coperto, ancora oggi da abitazioni, la posizione dell’anfiteatro è stata sconosciuta fino al 1976, quando, sull’erba di un prato si notarono delle tracce semicircolari che disegnavano la pianta di un edificio, l’ipotesi furono confermate, poi, dalle foto aeree scattate sull’area.
Nel 2007 un progetto di scavo e restauro ha permesso di riportare alla luce metà dell’anfiteatro. Attualmente è visibile l’arena, il sotterraneo e resti dei setti radiali che dovevano sorreggere la cavea.
 
 
Questa prima parte del viaggio ad Alife si conclude qui, al centro dell’anfiteatro… ma
la scoperta continua!
Ad majora 
 

 

7.23.2014

Nun c’è terra senza via e nun c’è casa senza porta…
 
 

Inizia il mio viaggio alla scoperta di posti visti mille volte ma mai osservati nei dettagli.
Pur essendo originaria della provincia di Benevento, ammetto con grosso rammarico, di conoscere poco o quasi nulla del mio territorio. Scoprire ancora quel poco che è rimasto diventa una bella avventura. Capire i dialetti, assaporare la cucina locale, gustare i tramonti suggestivi in un verde lussureggiante dove i paesaggi incontaminati di flora e fauna fanno da cornice, ecco, riscoprire tutto questo.
Sono convinta che il fascino attuale del territorio si deve contrapporre con vigore alla grande globalizzazione che ha incenerito ed annullato l’identità dei popoli. Inoltrasi nella memoria storica di un piccolo paese è la scoperta più entusiasmante che si possa fare, perché si capisce che il viaggio avviene dentro di noi.
 Così, un pomeriggio di mezza estate in compagnia della mia macchinetta fotografica mi sono avventurata  a  Pietraroja.  E’  un comune della provincia di Benevento, con circa 800 abitanti e sorge ad un’altitudine di 818 m s.l.m. sulle pendici della parte orientale della catena del Matese nell' Appennino meridionale.
Percorro la strada provinciale immersa nel verde, e tra uno scenario e l’altro arrivo in questo piccolo paese, parcheggio ed inizia l’avventura.
 
L’accoglienza è di sguardi curiosi che scrutano il turista fai da te, ma sono lieti di aiutare con un sorriso, chi è in difficoltà e chiede aiuto.
E’ una caratteristica dei pietrarojesi!  
Mi avvio tra le viuzze del centro storico, tra fiori di varie specie che abbelliscono le costruzioni prevalentemente in pietra.
Il mio sguardo ad un certo punto si ferma su un altorilievo un po’ insolito, posto in corrispondenza di un portoncino. Scopro con stupore, che anche Pietraroja, è stata terra di maghi e janàre (streghe) così come tutta la provincia di Benevento. Si narra che, alla fine dell’Ottocento,viveva un celebre mago zi’ Pèppu Mamèo, un vecchio pastore che non riceveva compenso in moneta ma solo in natura per le sue profezie. Era il periodo in cui si credeva nel mago o nella janàra che trasformandosi in vento, penetravano nelle stanze di notte per i malocchi o jettature. Pertanto, le vecchie credenze magiche, oggi sono ricordate attraverso questo altorilievo, datato 1606, e composto da una faccia con lingua all'esterno per scongiuro del malocchio, con una scritta … in lingua magica!


Continuo, ed arrivo nella piazza di San Nicola dove la chiesa  di Santa Maria Assunta, domina tutto il paese, quello che colpisce è il portale romanico datato XI sec. La storia del paese è antica, nacque come centro dei Sanniti-Pentri, per poi subire varie dominazioni dai romani ai longobardi, dai normanni fino ad arrivare agli aragonesi, un susseguirsi di eventi anche catastrofici, tipo il terremoto del 1688, hanno segnato la nascita e l’evoluzione dei pietrarojesi.

Mi soffermo un attimo, mentre sorseggio l’acqua fresca che fuoriesce da una fontana, sul nome del paese Pietraroja. L’etimologia probabilmente deriva dal latino petra robia (rupe rossa), per la presenza di alcune rocce sedimentarie di questo colore, dislocati sulla zona orientale del Monte Mutria. Altri avvalorano, invece, la tesi dello storico Strabone (64 a.C. – 20 d.C.) il quale ha scritto che  Pietraroja deriva da petra ruens (pietra che scorre) a causa di alcuni movimenti franosi.  

Mentre rifletto su queste definizioni etimologiche, chiudo gli occhi, e respiro a pieni polmoni e mi immergo nell’odore della natura, assaporo l’aria fresca che mi sferza il viso. Il clima è piacevole. E’ un posto tranquillo, pieno di storia,  ed è uno spaccato di un piccolo mondo antico, dove le origini sono lontane e dove tutto è rimasto incontaminato.

 

 

Decido di
continuare il mio percorso, e tra una salita e l’altra mi avvio verso il Paleolab il museo di geologia e paleontologia sorto nei pressi del parco geopaleontologico, è un'area che sovrasta il paese da dove si possono ammirare panorami mozzafiato.  
Pietraroja è un paese dell’Italia meridionale, estremamente importante per le passate scoperte di fossili.
In particolare per il fossile di Scipionyx Samnticus (ribattezzato Ciro) che conserva eccezionalmente le parti molli degli organi interni, oltre ad essere in assoluto, il più piccolo esemplare di fossile di dinosauro.
 Dopo la visita, vado verso la terrazza addossata al caratteristico cimitero dove il vento soffia e mi incoraggia ad ammirare il fantastico panorama che si apre davanti ai miei occhi. Ci si sente dominatori del mondo, l’orizzonte è bellissimo, nei giorni limpidi si può scorgere finanche il Vesuvio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ritorno indietro verso il centro storico, e nel tardo pomeriggio si sente già il profumo di cena. Un odore che mi entra nelle narici e mi fa indovinare cosa mai possa essere … ecco ci sono, è la famosa parmigiana di melanzane detta anche nel dialetto pietrarojese parmiggiàna de mulignàme. È la classica parmigiana napoletana(melanzane a fette fritte, mozzarella e salsa di pomodoro) con la variante delle fette di melanzane passate nell'uovo e fritte.
La cucina di Pietraroja è fatta di semplici piatti, poiché le principali attività, fin dall’antichità, riguardavano la pastorizia e l’allevamento di suini. I pietrarojesi disponevano, all’epoca, di pochi ma genuini prodotti così come il pane fatto in casa con farina integrale, a forma di pagnotte, panèlle alte, di colore un po' scuro e non diventava raffermo fino ad una settimana.
Prodotti semplici, assemblati nella loro unicità divenivano essenziali per la sussistenza di questo popolo. Cibi poveri ma ricchi di bontà.
Ne è passato del tempo da allora, ma alcune tradizioni sono rimaste.
Il profumo delle pietanze, i sapori, la tradizione, continuano a vivere in questo luogo. Oggi, la produzione eccezionale di formaggi e dei famosi caciocavalli, che in dialetto vengono detti, casecavàgli, (sono di forme ovali, legate a coppie con una corda e appese a pertiche orizzontali per la stagionatura), una tradizione tramandata da generazioni in generazioni, lasciano in bocca il sapore di queste terre. Lo stesso avviene con l’allevamento di suini a livello familiare da cui si ottengono dei salumi e dei prosciutti unici al mondo, poiché sono essiccati al freddo e al fumo, per poi procedere per una successiva stagionatura.
Per gustare questi prodotti genuini c'è un appuntamento che si rinnova ogni anno ed è "La sagra dei Prodotti Tipici" che si svolge ad Agosto. Comunque, questo è un luogo da visitare 365 giorni all'anno per assaporare i piaceri veri, quelli di una volta. Provare per credere. 
 
Ad majora!